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Kenia


E io che credevo che la corsa a Milano per l'imprevedibile mancanza del treno a Verona fosse uno dei tanti casi di italica superficialità. Per fortuna poi sono arrivato in Africa, forse l'unico posto al mondo dove in pochi giorni si comprende appieno il significato di società frenetica. Per differenza, naturalmente, con la nostra.
Due viaggi in uno: il viaggio attraverso i parchi, da Nairobi a Malindi, e la settimana di mare. Il primo si chiama safari: è swahili, ma molti pensano l'abbia inventato Walt Disney. La seconda  è meno suggestiva ma forse più istruttiva. Nemmeno tanto per gli indigeni, quanto per i connazionali di casa, che giù hanno villetta e barchetta. Baretto e discotechina.
 
Un paio di giorni a Nairobi – giusto in centro – quasi quasi mi fregano e penso che in Africa equatoriale ci siano i grattacieli. Te ne accorgi solo dopo che il centro all'occidentale è poco più grande della City londinese, e fuori c'è l'Africa, quella nera o quantomeno scura, così uguale a quella che ti eri immaginato guardando i documentari eppure così incredibile proprio per il fatto che non credevi potesse esserlo tanto. Salgo allora su quel pulmino che mi deve far diventare Piero Angela con le mie angeli custodi e ci trovo una coppia che, dopo il buongiorno di rito, mi scruta di sottecchi. Quel signore con la pipa è un po' strano... convengo con le amiche: diventerà poi il mio Virgilio.



Maciniamo chilometri tra buche e strade polverose. Spesso la testa sbatte contro il tetto del mezzo. Ma di fuori è bellissimo, i colori, i paesaggi, gli odori sono diversi. Semplicemente diversi. Attraversiamo i grandi parchi, passiamo sotto il Kilimangiaro. C'è la neve (in vetta...) e siamo all'equatore. Il mondo è davvero bello. Ci sono le giraffe, gli elefanti, ippopotami e zebre. E miliardi di stelle! E, la mattina presto – svegli per l'occasione – incrociamo i leoni. In quel posto gli animali in gabbia siamo noi, costretti nel pulmino. Ogni tanto, fuori dai parchi, si vede la gente. Che non sono Masai, popolo fiero di cacciatori convertiti obtorto collo al turismo. Ma, semplicemente, neri. E quei pulmini che vedono sfrecciare ogni tanto devono essere l'unico sfregio in giornate una uguale all'altra, inconcepibili per noi che consideriamo frenetica la società americana e tranquilla quella europea. Bambini. Ovunque. Lo sapevamo, ma è incredibile lo stesso. E le decine di manine che entrano smaniose dai finestrini durante le soste dicono
chiaramente che, da qualche parte, da noi o da loro, c'è qualcosa che non va.
Le magnifiche sorti e progressive, si diceva una volta.
Ora non va più nemmeno di moda dirlo. A Malindi troveremo un mare bellissimo, un albergo efficiente, compatriote simpatiche.
Due giorni però, poi già mi sento soffocare.
 Lascio animatori e giochi di società, e conosco un marinaio  che mi accompagna dove le mie angeli custodi  non possono. E qui, per descrivere la Malindi notturna, ci vuole Bukowsky. Non oso tanto, dico solo che il marinaio  era più marinaio di me, e sapeva navigare in quelle acque. Io mi sono limitato ad annotare che ci sono taxi, bar e discoteche. Ma li abbiamo inventati noi italiani, nella nostra rimini centrafricana. Dentro, arzille settantenni bianche fra fusti d'ebano, e bianchi fustini fra stupende somale ed eritree. Ora capisco cosa voleva Mussolini,  abbozzo al mio improvvisato amico di un paio di sere. C'è il Mal d'Africa, lo sappiamo. Infatti ci tornerò sicuramente. Ma forse in Africa è meglio non pensare troppo, oppure si rischia di star male davvero.                  S.
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